Aumenta nel 2018 il contenzioso sul mercato parallelo dei farmaci

Avv. Sabrina Devoto

 

Per il CDS, ove il produttore non fornisca la prova dell’indebito vantaggio commerciale che possa trarre l’importatore, AIFA può legittimamente imporre l’utilizzo dello stesso marchio già utilizzato nello Stato di importazione a fronte di un possibile rischio di confondimento e di induzione in errore per i consumatori.

 

Il mercato parallelo dei farmaci

Il principio della libera circolazione delle merci all’interno del mercato dell’Unione Europea e dei Paesi dello Spazio Economico Europeo (SEE) trova applicazione anche nel mercato dei farmaci.

La differenza di prezzo tra un farmaco autorizzato e commercializzato in un paese membro dall’analogo medicinale presente in un altro Stato membro ha dato origine al “mercato parallelo” dei farmaci, cioè al trasferimento dei farmaci nell’ambito della UE o del SEE da uno Stato nel quale i prezzi sono più bassi in un altro nel quale i prezzi sono più alti.

L’attributo di “parallelo” si riferisce alla circostanza che lo scambio si svolge parallelamente alla rete di distribuzione, che i fabbricanti o i fornitori originari hanno allestito per i loro prodotti in uno Stato membro, e riguarda prodotti che sotto ogni punto di vista sono simili a quelli commercializzati dalle reti di distribuzione.

L’Autorizzazione all’importazione parallela

La distribuzione in uno Stato membro di farmaci già autorizzati, fabbricati e commercializzati in un altro Stato membro, al di fuori del circuito di distribuzione del titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci stessi, viene definita importazione parallela ed è soggetta a specifica autorizzazione (AIP), che viene rilasciata, in Italia, dall’Ufficio Valutazione e Autorizzazione AIFA, sulla base di una procedura “semplificata” rispetto alla procedura di autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), a condizione che al prodotto importato sia stata concessa un’autorizzazione all’immissione in commercio nello Stato membro di origine e il prodotto importato sia essenzialmente “analogo” a un prodotto che ha già ricevuto l’autorizzazione all’immissione in commercio nello Stato membro di destinazione”.

In Italia l’importazione parallela è soggetta alla potestà regolatoria di AIFA ed regolata dalla legge 24 aprile 2006, n. 219 (“Attuazione della direttiva 2001/83/CE – e successive direttive di modifica – relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE“) e nello specifico dal Titolo IV, Capo I; la procedura semplificata di AIP di specialità medicinali per uso umano è regolata dal decreto del Ministero della Sanità del 29 agosto 1997.

La denominazione del farmaco importato

Uno dei problemi che caratterizzano la fattispecie e che è approdato più volte davanti ai Tribunali amministrativi riguarda il nome con cui il medicinale “importato” viene distribuito nel paese di destinazione.

La regola generale è quella per cui l’importatore parallelo deve conservare il nome del medicinale secondo il paese di provenienza, anche per tutelare i diritti di proprietà industriale e commerciale, cioè brevetti e marchi.

Tale regola può essere derogata, mediante apposizione dello stesso nome del medicinale utilizzato nel paese di destinazione, nelle sole ipotesi delineate dalla stessa Commissione sulle importazioni parallele di specialità medicinali e dalla giurisprudenza comunitaria: nel caso si registrino restrizioni o impedimenti alla commercializzazione del prodotto oppure nel caso sussista un “rischio di confondimento per la salute pubblica”.

In particolare il c.d. rischio di confondimento è ricollegabile alla presenza, nel territorio di destinazione, di farmaci diretti a curare altre e diverse malattie i quali possiedono, tuttavia, una denominazione del tutto analoga o similare a quella del prodotto che si intende importare in via parallela.

La “Guideline on the acceptability of names for human products”, pubblicata da EMA ad inizio 2008 e successivamente aggiornata, raccomanda di evitare l’uso di denominazioni la cui somiglianza possa ingenerare problemi di sicurezza nell’uso dei prodotti; l’uso nello Stato membro d’importazione del marchio usato nello Stato membro d’esportazione, quando quest’ultimo potrebbe indurre in errore può essere vietato a tutela dei consumatori.

Al di fuori di tali specifiche ipotesi, quindi, non sussiste un diritto dell’importatore parallelo ad ottenere il cambio di denominazione, poiché tale richiesta potrebbe essere volta conseguire un indebito vantaggio commerciale, dato dalla penetrazione commerciale di cui una certa denominazione goda presso la categoria di consumatori e pazienti.

La giurisprudenza dei Giudici amministrativi

Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il contenzioso relativo all’importazione parallela, con un numero di sentenze rilevanti emesse proprio nel corso del 2018.

Se nella maggioranza dei casi ai Giudici amministrativi è stato chiesto di pronunciarsi sull’illegittimità della silenzio serbato da AIFA sulla richiesta di rilascio dell’AIP, e quindi sulla mancata conclusione in tempi contenuti del relativo procedimento, in alcuni casi oggetto del contenzioso è stata proprio la denominazione da attribuire nel Paese di destinazione al nome del farmaco importato.

Nel 2018 il TAR Lazio si è pronunciato ben due volte negando il cambio di nome richiesto dall’importatore (sentenze 12293/2018 e n. 9050/2018), non ritenendo sussistere le circostanze per applicare la sopracitata deroga, ma cogliendo l’occasione con la sentenza TAR Lazio n. 9050/2018 di delineare il quadro normativo (comunitario e nazionale) e giurisprudenziale in cui si colloca l’AIP.

Diversamente con la sentenza CDS 3185/2018 il Collegio ha invece ritenuto che, nel caso posto alla sua attenzione, fosse necessario il cambio di nome ed che legittimamente AIFA potesse “imporre” all’importatore parallelo, per ragioni attinenti alla tutela della pubblica salute che rendono oggettivamente necessaria la sostituzione del marchio già utilizzato dall’importatore parallelo nello Stato di esportazione, di utilizzare la medesima denominazione del farmaco utilizzata dal produttore nello Stato di importazione: è illegittimo il provvedimento di AIFA che ha imposto l’utilizzo dello stesso marchio già utilizzato nello Stato di importazione a fronte di un possibile rischio di confondimento e di induzione in errore per i consumatori.

Tra le due soluzioni, quella di imporre lo stesso marchio usato nello Stato di importazione per il medesimo prodotto, già in commercio, o un terzo marchio, per il CDS la prima è la soluzione più idonea a tutelare i consumatori, in quanto questi non assistono, per lo stesso prodotto, ad un moltiplicarsi dei marchi – il marchio utilizzato nello Stato di importazione e un terzo marchio utilizzato dall’importatore parallelo per il farmaco importato dal Paese di importazione con un marchio non utilizzabile nel Paese di importazione – che crea una ulteriore fittizia frammentazione del nome e, quindi, un isolamento artificiale del mercato.

Nel caso di specie i Giudici hanno anche sottolineato che l’opposizione del produttore all’utilizzo dello stesso marchio non era stata sostenuta dalla prova, da questo non fornita, che l’importatore parallelo volesse esclusivamente conseguire un indebito vantaggio commerciale.

Per il Consiglio di Stato, incombe, quindi, sul produttore la prova dell’indebito vantaggio commerciale che possa trarre l’importatore dall’utilizzo della stessa denominazione.