Tutela alla salute, credo religioso e sostenibilitá pubblica delle spese sanitarie – la Corte di Giustizia su un caso delicato
Dott.ssa Anna Garaventa
La Corte di Giustizia non di rado è chiamata a pronunciarsi su temi delicati, che mettono in contrapposizione diritti fondamentali; anzi, la si potrebbe considerare la sede privilegiata per la disamina di tali contrasti. Quando poi i diritti in gioco sono il diritto alla tutela della salute e alla libertà religiosa ecco che viene destato l’interesse anche dei non addetti ai lavori. È quanto avviene nella recente pronuncia
Fino a che punto uno Stato è tenuto a garantire, e quindi a sostenere, le cure mediche a favore di un proprio cittadino? Quale peso possono avere le convinzioni religiose?
Questi, in sintesi, i quesiti che è chiamato ad affrontare il Giudice europeo con Sentenza C-249/19, investito della questione dal Sentato della Corte suprema della Lettonia (l’equivalente italiano della Corte di Cassazione), la quale si è trovata a decidere sulla controversia instaurata da un cittadino lettone (A). contro il Ministero della Salute lèttone, a seguito del rifiuto da parte di quest’ultimo a rilasciare un’autorizzazione che consentisse al figlio di A. di ricevere assistenza sanitaria a carico del bilancio dello Stato in un altro Stato membro.
Il caso
Il figlio del ricorrente nel procedimento principale, minore affetto da una malformazione cardiaca congenita, doveva subire un intervento a cuore aperto, ma il padre, in quanto testimone di Geova, si è opposto alla trasfusione di sangue necessaria all’operazione, richiedendo che il figlio potesse essere operato in altro Paese dell’Unione (Polonia) dove è possibile eseguire l’operazione senza ricorrere alla trasfusione, ponendo le spese sanitarie a carico del Paese di appartenenza.
Il Ministero della salute della Lettonia ha negato tale autorizzazione, ritenendo non sussistenti i presupposti per l’assistenza sanitaria transfrontaliera, infatti, l’operazione in questione poteva essere effettuata in Lettonia e ai fini del rilascio autorizzativo devono essere presi in considerazione solo il quadro clinico e le limitazioni fisiche dell’individuo.
Da qui l’instaurazione del giudizio da parte del padre del giovane.
La normativa
Il giudice nazionale si è interrogato sulla conformità alla normativa europea del regime autorizzativo vigente in Lettonia in materia di assistenza sanitaria transfrontaliera.
Le fonti europee di riferimento sono il Regolamento 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la direttiva 2011/24/UE sull’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera, l’art. 56 TFUE sulla libertà dei servizi e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con particolare riferimento all’art. 21 relativo alla non discriminazione.
Ai sensi dell’art. 20 del Regolamento 883/2004, l’autorizzazione a recarsi in un altro Stato Membro al fine di ricevere cure adeguate è concessa qualora le stesse figurino tra le prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro in cui risiede l’interessato e se le cure in questione non possono essergli praticate entro un lasso di tempo accettabile sotto il profilo medico, tenuto conto dell’attuale stato di salute dello stesso e della probabile evoluzione della sua malattia.
La direttiva 2011/24/UE, invece, prevede che ai pazienti dovrebbe essere garantito un livello di copertura dei costi delle cure sanitarie perlomeno corrispondente a quello che sarebbe stato loro riconosciuto per un’assistenza identica prestata nello Stato membro di affiliazione.
Inoltre, ai sensi dell’art. 7: “Fatto salvo il regolamento [n. 883/2004] e conformemente a quanto disposto dagli articoli 8 e 9, lo Stato membro di affiliazione assicura che i costi sostenuti da una persona assicurata che si è avvalsa dell’assistenza sanitaria transfrontaliera siano rimborsati, se l’assistenza sanitaria in questione è compresa tra le prestazioni cui la persona assicurata ha diritto nello Stato membro di affiliazione”.
Tuttavia, l’articolo prevede anche la possibilità di subordinare il rimborso ad autorizzazione preventiva e di limitare l’applicazione delle norme sul rimborso per motivi di interesse generale, quali ad esempio l’obiettivo di assicurare un accesso sufficiente ed adeguato alle cure nel rispetto dell’equilibrio economico-finanziario del proprio Paese.
Per quanto riguarda la previsione di un’autorizzazione preventiva all’assistenza transfrontaliera, rappresentando una sorta di limitazione, questa deve essere proporzionale all’obiettivo da raggiungere e non può costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione dei pazienti.
Uno dei casi espressamente previsti dalla normativa in esame in cui l’autorizzazione può essere negata è quando l’assistenza sanitaria in questione può essere prestata sul proprio territorio entro un termine giustificabile dal punto di vista clinico, tenendo presente lo stato di salute e il probabile decorso della malattia di ogni paziente interessato (art. 8 par.6, lett. d)).
I quesiti
Alla luce della normativa sopra richiamata, ecco che il giudice nazionale si interroga se uno Stato Membro possa rifiutare l’autorizzazione all’assistenza transfrontaliera, qualora nello Stato di residenza siano disponibili cure ospedaliere la cui efficacia clinica non è in discussione, ma il metodo di cura utilizzato non sia conforme alle convinzioni religiose dell’interessato o se, rifiutando, incorrerebbe in una violazione del Regolamento 883/2004 o della direttiva 2011/24, oltre che in una violazione del divieto di discriminazione religiosa sancito dalla Carta dei Diritti fondamentali.
L’analisi della Corte
Secondo i giudici europei, è da escludersi l’incompatibilità con il Regolamento 883/2004, che limita i casi in cui l’autorizzazione non può essere negata all’ipotesi in cui le cure in questione figurino tra le prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro in cui risiede l’assicurato e a quella in cui dette cure che si intende ricevere non possano essere praticate entro il termine normalmente necessario.
Ovviamente, al fine di valutare la sussistenza di tale ultima condizione si deve far riferimento al caso concreto limitatamente al quadro clinico del paziente.
La normativa Lettone non pare, quindi, in contrasto con tale normativa, essendo formulata anche in termini neutri, ma occorre accertare se realizzi una discriminazione indiretta fondata sulla religione, avendo il divieto di discriminazione carattere imperativo.
Nel caso in esame è innegabile che si sia creata una differenza di trattamento tra i pazienti che subiscono un intervento medico con trasfusione di sangue, i cui costi sono coperti dalla previdenza sociale dello Stato membro di residenza e i pazienti che, per motivi religiosi, decidono di ricorrere, in un altro Stato membro, a un trattamento al quale le loro convinzioni religiose non si oppongono, i cui costi non sono però coperti dallo Stato membro di residenza.
Orbene, un sistema statale, per quanto evoluto, in cui non si generino discriminazioni è un sistema ontologicamente utopistico; tuttavia, qualora si generi una differenza di trattamento, questa deve essere fondata su un criterio obiettivo e ragionevole.
In tale ottica, è chiaro che il rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale possa giustificare una differenza di trattamento fondata sulla religione, prefiggendosi il primo l’obiettivo di contribuire alla realizzazione di un livello elevato di tutela della salute.
Anche lo Stato Italiano ha fatto pervenire le proprie osservazioni in giudizio, evidenziando come i sistemi sanitari nazionali potrebbero trovarsi esposti a un gran numero di richieste di autorizzazione a sottoporsi a cure mediche transfrontaliere fondate su motivi religiosi piuttosto che sul quadro clinico dell’assicurato.
Il contrasto potrebbe però sussistere con la direttiva 2011/24, la quale prevede la rimborsabilità delle prestazioni eseguite in un altro Stato Membro fino al massimo dell’importo che sarebbe stato riconosciuto per la prestazione eseguita nel proprio paese di residenza. Infatti, la direttiva specifica che la facoltà di negare l’autorizzazione preventiva deve limitarsi a quanto necessario e proporzionato all’obiettivo da raggiungere, e non può costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione dei pazienti.
Per quanto le disposizioni della direttiva e del regolamento siano simili, prevedono un sistema di rimborso differenti, infatti, la Direttiva prevede che i costi relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera siano rimborsati o direttamente pagati dallo Stato membro di affiliazione in misura corrispondente ai costi che il sistema avrebbe coperto se tale assistenza sanitaria fosse stata prestata sul suo territorio, e ciò senza che tale copertura superi il costo effettivo dell’assistenza sanitaria ricevuta.
Con un regime siffatto diviene difficile per uno Stato invocare quale giustificazione del rifiuto il disequilibrio finanziario in cui incorrerebbe.
Ecco che un ruolo decisivo, manco a dirlo, è rivestito dal giudice del merito (giudice del rinvio) al quale spetta il compito di verificare se nel caso concreto il diniego sia proporzionale all’obiettivo -invece- di mantenimento delle strutture sanitarie e delle competenze mediche.
In altri termini, la direttiva 2011/24 osta a che uno Stato membro rifiuti ad un proprio cittadino l’autorizzazione a ricevere cure transfrontaliere, nel caso in cui in detto Stato siano disponibili metodi di cura efficaci, ma contrari alle convinzioni religiose del paziente.
Questa la risposta della Corte ad una questione senz’altro delicata, che lascia spazio e rilevanza all’elemento della fede religiosa anche in un ambito -quello della sanità pubblica- ove siamo abituati a vedere una incidenza sempre maggiore dell’elemento economico e dei costi, ovviamente nel rispetto del principio di uguaglianza, che rimane uno dei principi cardine che devono orientare le scelte delle istituzioni.